3 novembre 2006
Buona l'anima, malo il vino
Ha ragione da vendere Giovanni Maria Ruggiero, quando dice che gli estremisti tendono tutti ad essere un po’ confusionari. Il “lodo Ruggiero” si riferisce in particolare a Malvino e, da vari punti di vista, ne ha ben donde. Molto si potrebbe scrivere a proposito della miriade di aporie cui conduce il materialismo esasperato del quale la nota blogstar radicale è strenua fautrice – prima tra tutte la non trascurabile esigenza di costruirsi mediocri metafisiche scientiste. Si tratta dei temi che – rivolgendomi a interlocutori, per così dire, ideologicamente contigui a Luigi Castaldi – affrontavo diffusamente nel mio metabio(gen)etica, minisaggio in quattro puntate linkato sul dorso del blog. Proprio in quel frangente, tra le altre pezze d’appoggio, mi compiacevo di portare a suffragio di certi miei argomenti qualche brano di quello che Luigi Castaldi aveva scritto qui il 28 Aprile di quest’anno. Nella fattispecie:
“Un essere vivente è il suo Dna? No, [il Dna, NdIsmael] è la potenza di una sua parte (potenza che, peraltro, non è in atto, se non adeguatamente derepressa). Questa parte – il cosiddetto fenotipo (l’insieme dei caratteri visibili comuni agli individui d’una specie) – non dà ragione della sua interezza, che è il risultato dell’interazione del fenotipo con l’ambiente. Infiniti i fattori ambientali che possono, anche in modo assai significativo, modificare il fenotipo così come codificato nel suo genotipo – nel suo Dna. Tutto daccapo: un uomo è il suo Dna? No, il suo Dna può dargli, salvo interferenze di molteplici fattori ambientali, quei caratteri comuni agli individui della sua specie e dei vari sottogruppi che la compongono. Dato questo suo particolare fenotipo, a partire dal particolare genotipo che ne era la codifica, ed escluse le interferenze che possono deviare dal progetto scritto sul suo Dna, l’uomo non è tutto in quel fenotipo, né è tutto desumibile a priori dal genotipo che reca in dote per la generazione successiva. Infiniti i fattori ambientali che possono, anche in modo assai significativo, esprimere un diverso complesso individuale a partire dallo stesso genotipo”.
Piacevolmente liberale e anti-materialista, vero? Sorvolando sugli sviluppi terminali del ragionamento che, partendo da tali premesse, sarebbe andato delineandosi (per inciso, basti dire che costituisce coartazione di nemmeno eccelsa levatura il sussumere nel determinismo genetico lo strabismo di mettere in predicato termini di paragone disomogenei: a rigor di logica, lo scimpanzè adulto e sano va comunque raffrontato con l’homo sapiens ugualmente adulto e sano, non con “l’ovocellula appena fecondata”, né con “il feto gravemente malformato”), le asserzioni di cui sopra rimangono testate d’angolo di ogni salubre weltanshauung strutturalista, orientata cioè ad analizzare i sistemi complessi considerando i vari elementi che li formano nelle loro correlazioni e interdipendenze reciproche. Senza indugiare troppo sull’enumerazione dei mattoni, in altre parole, lo strutturalismo preferisce esplorare l’edificio nella sua interezza. Una concezione di massima che cozza piuttosto violentemente con quanto scritto da Malvino qui, nella seconda puntata di un pregevole trittico dedicato alla disputa sull’immaterialità dell’anima avviata sabato scorso da Il Foglio. Leggere per credere:
“[dire che] «La Divina Commedia è più (e altro) dei 21 segni alfabetici che la compongono» [è una] Tesi estrema? Mi pare di sì: senza portare alcuna prova verificabile a sostegno, dà per certo che – fuor di metafora – l’uomo è più (e altro) della materia che lo compone. Diciamo meglio: nell’uomo ci sarebbe un elemento immateriale”.
E certo che c’è: esclusa ogni speculazione religiosa, esso è comunque dato proprio dall’insieme di quei “fattori ambientali che possono, anche in modo assai significativo, esprimere un diverso complesso individuale a partire dallo stesso genotipo” oltre che, circoscrivendo il portato di queste riflessioni alle peculiarità della specie umana, dalla capacità di interferire con i processi evolutivi “bruti” seguendo virtute e conoscenza. Qui l’anti-materialismo viene capovolto, il soggetto è conseguenza diretta dell’oggetto, il tutto è verificato dall’assemblaggio delle sue parti: e se la struttura chimica dell’insulina si fosse evoluta diversamente da come la conosciamo noi?
“Se l’evoluzione avesse avuto, per puro caso, uno scarto lievissimo in direzione diversa, staremmo a parlare di altro libro scritto da un altro uomo che non Dante, la cui omeostasi sarebbe retta da un’altra proteina e – mutatis mutandis – in una condizione (morfologica, interattiva, funzionale) tutt’affatto diversa”.
Viene da domandarsi che razza di insulsaggini o, per converso, quali superiori meraviglie avrebbe vergato il Poeta per antonomasia se la sua omeostasi, similmente alla semeiotica di uno scarto evolutivo, avesse sofferto di una qualche disfunzione soggettiva – di quelle che “il caso propone” e di cui “la selezione dispone”, tanto per intenderci. Fosse stato diabetico, pare di capire, di certo non avrebbe scritto la Commedia. Avrebbe scritto altro. Più bello o più brutto, ma altro. Bisogna fidarsi: è così. E ad ogni modo:
La Divina Commedia, dunque? La Divina Commedia, un cazzo. Non è letta da un cieco, e talvolta non dà brividi anche a chi è vedente e sa leggere. In sé – senza che (morfologicamente, interattivamente, funzionalmente) essa diventi, per qualcuno, quello che a questo qualcuno parrà di rabbrividente – la Divina Commedia, sì, è un mucchio di caratteri alfabetici”.
Per cui la riflessione malviniana “dà per certo che – fuor di metafora – l’uomo” non sia nulla più del “suo Dna”. Il problema centrale in questione, però, viene in tal modo aggirato con l’ennesimo espediente retorico ad effetto. La specie, infatti, in ogni sua possibile accezione di significato, designa il campo di potenzialità che un determinato insieme di elementi, sotto precise condizioni, è in grado di esprimere. Se un libro è un mucchio di lettere, allora, una casa è un mucchio di pietre: peccato che i potenziali di fruizione concepibili per ambedue le coppie messe a confronto non coincidano affatto. Certo, la Divina Commedia può rivelarsi sgradevole da leggere, così come il Taj Mahal probabilmente non è il massimo della praticità abitativa. Ma anche la più remota possibilità di trovare ristoro per l’anima o riparo per il corpo distingue, rispettivamente, la Commedia da un coacervo di caratteri e il Taj Mahal da una catasta di laterizi. Questi ultimi “ammassi”, infatti, non possono esprimere deliberatamente alcun potenziale di ristoro e/o di riparo. Altro particolare di non poco conto è la parziale inapplicabilità del principio di casualità alla formazione delle strutture complesse, giacché è quantomeno avventuroso ritenere che le tre cantiche dantesche si possano ricostruire provando un numero n di volte a pigiare a casaccio la tastiera di un computer. Da cui l’assai frequentata maneggevolezza del riduzionismo per classificare la poliedricità del reale: è più comodo sezionare la materia in sottoparti sempre più minuscole, anziché trovare il bandolo dei macrosistemi fisici in cui si coordina l’universo. Concludendo, Malvino ammette che, per venire a capo dell’ignoto, “siamo costretti a ricorrere a strumenti come l’ipotesi e i modelli”. Ma quando il modello che sottende un’ipotesi manifesta la totale mancanza del crisma della confutabilità – com’è palesemente il caso, ove si sostenga apoditticamente che “Se Marco Beccaria non fosse quel determinato «friccichìo di elettroni» che è, e che ha orrore d’essere, il «friccichìo di elettroni» che è Raffaella non gli sembrerebbe Raffaella, ma un’altra persona” – si esula dalla scientificità per rientrare invece nell’ambito di una opzione filosofica ben precisa, con tanto di sopraddote metafisica al seguito. Ognuno ha la sua. Io, con Giorgio Israel, ne carezzo un’altra, poiché non credo che i processi materiali siano all’origine dei processi mentali. “Sarebbe come affermare che gli eventi elettrici all’interno di una radio sono causa della voce e dei concetti trasmessi dall’apparecchio”.
Filosofia morale
| inviato da il 3/11/2006 alle 9:35 | |
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