









Perduta nazione, avito suolo
Isole tra i monti, strade pei mari
Unico asilo ed eterno conforto
Per te prosperiamo
Liberi e reverenti

Due che hanno visto giusto

La situazione mediorientale spiegata
meglio che in mille editoriali

In memoria di Diamond
"Dimebag" Darrell, e di tutti gli
interminabili pomeriggi di
gioventù trascorsi a sgomitare
sotto la sferza selvaggia
della sua chitarra!
Where I belong:



Edoardo Ferrarese

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Liberalizzazioni:
cosa resta da fare?
#1 #2
Il punto sulle bersanizzazioni
#1 #2 #3
Un giorno di libertà
#1 #2 #3
Metabio(gen)etica
#1 #2 #3 #4
Per il bene dell'Italia
#1 #2 #3 #4 #5
#6 #7 #8 #9 #10
IsmaelVille
#1 #2 #3 #4 #5
#6 #6.1 #7 T13
Spigolature internautiche
"Uòlter Veltroni
a tajà er nastro
so' tutti bboni"
by Giggimassi
"Far l'amore
col preservativo
è come fare il bagno
con lo scafandro"
(Anonimo)
"Non sono né del partito
rivoluzionario né del
partito conservatore.
Ma tuttavia e dopotutto
tengo più al secondo che al
primo. Infatti dal secondo
differisco nei mezzi
piuttosto che nel fine,
mentre dal primo differisco,
insieme, nei mezzi e nel fine.
La libertà è la prima delle
mie passioni. Questa è la
verità"
Alexis De Tocqueville
(by Zamax)
"Se Dio si candida,
lo stolto pensa alle elezioni
invece che al problema
dell'elezione"
Giuliano Ferrara
"Io credo soltanto nella parola.
La parola ferisce, la parola
convince, la parola placa.
Questo, per me, è il senso
dello scrivere"
Ennio Flaiano
(by Il Paroliere)
"L'ideazione di un sistema
resistente è atto creativo
che solo in parte si basa su
dati scientifici; la sensibilità
statica che lo determina, se
pure necessaria conseguenza
dello studio dell'equilibrio e
della resistenza dei materiali,
resta, come la sensibilità
estetica, una capacità
puramente personale, o per
meglio dire il frutto della
comprensione ed assimilazione,
compiutesi nello spirito del
progettista, delle leggi
del mondo fisico"
Pier Luigi Nervi
(Scienza o Arte del Costruire)
"L'unica cosa necessaria
per il trionfo del male
è l'inerzia dei buoni"
Edmund Burke
(by Torre di Babele)
"Un governo così grande da
darti tutto quello che vuoi
è anche abbastanza grande
da toglierti tutto quello che hai"
Barry M. Goldwater
(by Retorica e Logica)
"L'amore è donare quello
che non si ha a qualcuno
che non lo vuole"
Jacques Lacan
(by Bernardo)
"Sono un conservatore nel
senso inteso da Hannah Arendt,
che si preoccupava della
preservazione del mondo.
Oggi comunque non c'è più
ordine costituito, ma solo
un cambiamento costituito.
La nostra sola tradizione è
il progresso. Viviamo in nome
del movimento e del
cambiamento continuo.
In questo contesto, io mi
considero un rivoluzionario,
perché ormai la sola
rivoluzione possibile è quella
che interrompe le derive
contemporanee"
Alain Finkielkraut
(by Temis)
"Parliamo di politica:
quando si mangia?"
Alberto Mingardi
"Quella delle domeniche
a piedi è una messa rosso-
islamica, basata sulla nostalgia
del bel tempo della austerity
'regalataci' dall'Opec nel 1973.
E' un rito di espiazione e
autoflagellazione, direbbe un
Ernesto De Martino. E' una
autopunizione per aver pensato
di andare in auto a casa della
mamma, direbbe Freud. E' una
purga rivoluzionaria per
distruggere i beni di consumo
e tornare al valore d'uso,
direbbe Karl Marx"
Paolo Della Sala
"Quando uno conosce bene
una cosa se ne ha a male
se qualcun altro ne parla"
by Cruman
"Il vero conservatore sa che
a problemi nuovi occorrono
risposte nuove, ispirate a
principi permanenti"
Giuseppe Prezzolini
by Camelot Destra Ideale
"Una donna lo sa: le donne
adorano odiarsi. E' una cosa
vezzosa, niente di grave: solo
un po' di veleno qua e là, uno
sgambetto un sorriso e una
pugnalata alle spalle.
Non possiamo resistere"
Annalena Benini
"Gli elettori delegano
il peccato ai potenti, così
possono immaginare
di non essere colpevoli
di nulla"
Paolo Della Sala, again
"L'utilitarista deve nascondere
giudizi di valore da qualche
parte, per prendere decisioni
in base al suo principio,
e la teoria morale che ha
non è quindi l'utilitarismo,
ma lo specifico criterio
decisionale adottato"
LibertyFirst
"Non c'è più nessuno
a cui sparare, signore.
Se si tratterà solo di
costruire scuole e ospedali,
è a questo che serve l'esercito?"
Michael Ledeen
"L'idealista è uno che,
partendo dal corretto
presupposto che le rose hanno
un profumo migliore dei cavoli,
usa le rose per fare la zuppa"
Antonio Martino
"Sono sempre i migliori
ad andarsene dai forum"
Malvino
"Sapientia deriva da assaporare,
serve altro commento che non sia
mettere in moto il pensiero,
il ragionamento critico
come sapore delle cose?"
adlimina
"Se gli economisti fossero
in grado di prevedere l'economia
non sarebbero tali, cioè non
avrebbero bisogno di insegnare
per sbarcare il lunario"
Mario
"Chi è sovente accigliato,
chi alza spesso il ditino
ammonitore, chi giudica
severamente il mondo
è uno che nel mondo
ci si trova male"
Gianni Pardo
The unprofessional blog
L'autore dichiara apertamente
che gli audaci parti del suo
intelletto avrebbero bisogno
del conforto di dottrina
specialistica in più materie,
nessuna delle quali minimamente
padroneggiata: pregasi notare
- sia ricordato qui una volta
per tutte - che di siffatti
scrupoli accademici è
privilegio della corporazione
dei dilettanti infischiarsene
allegramente (TNX Zamax)
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3 aprile 2012
Mi scusi per l'invadenza, candidato
Mi
viene segnalata l’inacidita ed elusiva risposta
che Andrea Ferrarese, candidato sindaco a Cerea, ha indirizzato non più di
qualche ora fa a osservazioni mie e altrui. Materia del contendere è il tipo di
“intimità” che il Nostro sarebbe in grado di ripristinare con la cittadina
oggetto delle sue recenti mire politiche, qualora l’iniziativa di impegno
civico da lui capeggiata dovesse avere successo. Visto e considerato che i
centri di gravità su cui attualmente ruotano i bioritmi di Ferrarese sono tutt’altri
(Legnago e Castelnuovo del Garda), lo spunto non è affatto peregrino.
Spiace
che l’interessato opti per il lancio della palla in tribuna – espediente di rimessa
da terzino in affanno – invece di mantenere il dibattito nel suo alveo naturale,
ovvero quello squisitamente sostanziale. A parte il fatto che le critiche e gli
attacchi personali sono il pane quotidiano di chiunque ricopra una carica
pubblica, con il bando alla suscettibilità che dovrebbe costituire prerequisito
fondamentale per ambirvi consapevolmente, qui non stiamo spettegolando tra comari, ma parlando delle garanzie
che il candidato è disposto a offrire ex
ante alla cittadinanza in ordine alla qualità della sua eventuale, futura
dedizione al mandato.
Nulla
che riguardi obblighi di legge vigenti o anche solo auspicati, s’intende. Il merito
in discussione è quello dell’etica politica, che solleva la fatidica e annosa domanda:
a cosa siamo disposti a rinunciare, pur di mettere la nostra persona al miglior
servizio della comunità? Alla nota spese per rimborso chilometrico? Al presidio
quotidiano della nostra attività professionale? Al tempo libero nei fine
settimana? Ai “normali” affetti familiari?
Il
punto è che devi essere davvero un fenomeno, per rispondere “a nulla” nella
certezza di far bene comunque. In realtà la prospettiva di ritrovarsi con vertici
amministrativi a mezzo servizio non è delle più rosee, proprio perché il divario
tra ceretani* a tempo parziale e a tempo perso è indeterminato a priori. E un banale
ragguaglio statistico basta a persuadersi del fatto che è perlomeno improbabile
riuscire a selezionare priorità senza rinunce, così come coniugare un approccio
stizzosamente intellettualistico all’immersione in quel microcosmo di aspettative,
elaborazioni e controversie che è Cerea – anche e soprattutto quella del 2012.
Se
non fosse chiaro a sufficienza: non si stanno sollecitando generiche
rassicurazioni di circostanza, magari fornite tramite slogan di plastica, ma l’assunzione
di obblighi a carattere contrattuale. Sperando di non dimenticarcene nessuno.
*
io, invece, lo profferisco così,
filologicamente e foneticamente mi garba parecchio di più. Una rapida scorsa alla disamina che
il Bresciani (ingegnere anche quello, perbacco, qui si esagera davvero con l’expertise!)
dedicava ad analoga schermaglia demotica mi conferma la bontà della scelta.
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15 novembre 2011
Anche la speme fugge i sepolcri?
Probabilmente si rivelerà un’orazione funebre prematura, se non altro per l’insolente audacia con cui l’uomo ha ripetutamente mostrato di sapersi reinventare, ma trovo lo stesso che valga la pena di spendere qualche riflessione sul lascito della vicenda berlusconiana sin qui. Il bilancio da trarre – specie per chi, come me, ha creduto in ogni occasione utile alla scommessa del Cavaliere – si diparte da voci molto poco materiche ma, nondimeno, perviene a saldi assolutamente concreti. Innanzitutto: in cosa è consistita la sfida lanciata dal capopopolo di Arcore, se ne proiettiamo la sostanza in una dimensione simbolica? Se il pensiero corresse pedissequamente alle corrive giaculatorie sulla (incompiuta) “rivoluzione liberale”, esso finirebbe immediatamente in un vicolo cieco. L’afflitto richiamo all’ormai mitologico “spirito del ‘94”, proveniente anche e soprattutto da commentatori più delusi che ostili, lascia trasparire l’indebita derubricazione di un disegno sistematico, finalizzato a trasformare radicalmente il rapporto tra politica ed elettorato, ai “motti di sintesi” prescelti nell’intento di anticiparne alcuni possibili sviluppi (meno tasse per tutti, meno stato più mercato, e così via). Non occorrevano particolari virtù precognitive, ad ogni buon conto, per sospettare che, amaggior ragione dopo la disfatta referendaria sulle riforme istituzionali, un ulteriore eventuale mandato berlusconiano avrebbe avuto carattere residuale, specialmente sotto il profilo dello slancio riformatore. No, il cuore dell’iniziativa forzista (in passato, quando l’impulso appariva giovane e forte) e pidiellina (oggi che è moribondo, almeno a detta del giornalista collettivo) pulsava sul piano intensionale – scritto proprio così, con la esse. In altre parole, tra mutevoli fortune, Silvio Berlusconi è stato in grado di proporre una piattaforma politica intrinsecamente “in credito” con le alternative, anche senza il completo beneficio della controprova e/o davanti all’evidenza di promesse in larghissima misura disattese. Le scaturigini di questo capitale reputazionale detenuto a priori, di questa attendibilità congenita, si appunta(va)no al ben preciso archetipo incarnato dall’ex premier. L’epica berlusconiana ha saputo costruirsi attorno a suggestioni collaudate e, allorché impersonate da un temperamento più o meno alla loro altezza, tutto sommato persuasive. Mi riferisco ovviamente al romanzo verista dell’impresario arricchitosi col talento, del capitano coraggioso che rinuncia a godersi l’opulenza per scendere a battersi nell’agone politico. Ma soprattutto del manager che applica al governo della cosa pubblica un modello di gestione “aziendale”, agile e potente strumento per mettere fuori causa il patriziato politico, il mandarinato ministeriale, i padronati sindacali e confindustriali – detto altrimenti, i cartelli corporativi allestiti dai gruppi di potere non elettivi per tutelare interessi particolari di vario ordine e grado. Curiosa e affascinante contraddizione: il leader carismatico dello schieramento conservatore, in Italia, negli ultimi diciassette anni è stato un teorico della disintermediazione totale tra il popolo e la sua guida. Ovvero l’esatto opposto di ciò che asseriscono, da qualche secolo a questa parte, le dottrine promosse dai “padri nobili” della schiatta politico-filosofica in senso lato destrorsa. Gli esempi si sprecano, dal Cicerone che ammoniva “potestas in populo, auctoritas in senatu” al Tocqueville che, dell’ancien régime, salvava proprio i corpi sociali intermedi in funzione anti-plebiscitaria. Addirittura, nella storia italiana recente, uno scontro frontale con i “poteri forti” spesso più narratologico che effettivo ha determinato, presso la parte moderata e conservatrice degli aventi diritto al voto, il “preconcetto positivo” di cui sopra. Ebbene, dopo l’ultimo fragoroso tonfo, per quanto foriero di verdetti nel caso tutt’altro che definitivi, si può ben dare per acquisita almeno una certezza: il venire meno dell’illusione per cui si possa prendere a calci lo status quo ante “da destra”. No, non è trasferendo in ambito politico i processi decisionali della libera impresa che si risolve il problema di fare sintesi tra interessi divergenti. No, non tutto è lex mercatoria, nel senso che gli affari umani scontano anche circostanze impossibilitate a esaurirsi nella predefinizione, mediante la stesura di termini contrattuali inderogabili; esiste anche l’universo delle “mutate condizioni al contorno”, dello spregio alla parola data, dell’imponderabilità. E no, i mandati popolari, come qualunque altra risorsa di questo mondo, non si mantengono coesi all’infinito senza l’ausilio dei principi permanenti e dei contropoteri necessari a incanalarne l’abbrivo verso finalità socio-politiche compatibili con la realtà storica. Quando le consapevolezze suddette penetrano a fondo nella coscienza critica della gente, come continua ad accadere in questi giorni davanti all’ennesimo crepuscolo del Cav, lo scarto pregiudiziale che finora ha contraddistinto nel bene i sottintesi del linguaggio berlusconiano si corrompe nel suo inverso diametrale, secondo un effetto analogo all’antipatia che suscitano le celebrità vittime della sovraesposizione mediatica. Bene che vada, si finisce per maturare la convinzione che non vi sia poi molta differenza tra un capitalista prestato alla politica e un ottimate bocconiano, se sono entrambi obbligati a districarsi nella stessa giungla di veti incrociati e di vincoli sovraordinati (questi ultimi imposti dai mercati internazionali e/o dalle istituzioni europee). Per propiziare la speranza della memoria, Ugo Foscolo scrisse che “chi la scure asterrà pio dalle devote frondi men si dorrà di consanguinei lutti”, nella mia personalissima lettura stando a significare che, per coltivare l’ambizione di incidere sul presente e sul futuro, occorre saper riplasmare pazientemente le vestigia del passato, anziché demolirle a palle incatenate. La destra italiana deve ripartire dall’ardua missione di cambiare il sistema dal di dentro, senza lasciarsi sedurre da scorciatoie provvidenzialistiche: quelle appartengono evidentemente al dominio dell’irrealtà, se non le ha sapute percorrere nemmeno uno come Berlusconi.
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11 febbraio 2011
Identità e differenza
Per
compendiare ciò che siamo, ciò che vogliamo, qui.
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13 gennaio 2011
The social network
Mark
Zuckerbeg assurge ad archetipo dell’homo
faber fortunae suae mentre la piazzagrande internettara da lui fondata draga
le magnificenti autoschedature di intere generazioni. La scalata al potere e al
successo fa strame dei rapporti umani autentici a maggior gloria del vano
dominio sulle altrui proiezioni egoiche. Ebbene, ecco tutto quello che non si trova in The Social Network, a meno di non banalizzarne pigramente il
movente narrativo – scambiandolo con l’ennesima riproposizione di triti motivi
drammatici (il conflitto postadolescenziale tra precaria integrità e allettante
spregiudicatezza) o epicheggianti (l’ascesa e la caduta del citizen Kane di turno), che forniscono casomai
degli stilemi rodati abbastanza da performare speculazioni “impegnate” senza caricare
i testi di verbosità.
A David
Fincher preme infatti disegnare percorsi dialettici, più che emettere verdetti
etici. Come già in 7even, Fight Club, Panic Room e Zodiac, anche qui le idiosincrasie e le
ambizioni dei personaggi interagiscono nell’ambiente scenico impossibilitate a carpire
un concluso netto, tessendo nei tempi e negli spazi della vicenda un dialogo mai
foriero di sbocchi risolutivi. Per giunta, l’ultimo lavoro dell’ex adepto di Propaganda
scava nell’esigenza di “comunicarsi” all’esterno indossando delle maschere e la
riconduce a stigmate umane, troppo umane, che la tecnologia permette solo di
lenire in modo viepiù potente e sofisticato. Il tema si presta a compiere il
suo giro di spirale attorno alla struttura discorsiva, senza grandi concessioni
all’estro registico (com’era peraltro già nelle corde del succitato Zodiac). Forse l’unico brandello di tecnica
descrittiva dal sapore decisamente fincheriano si riconosce nella marchetta ai
due coprotagonisti, un take in fuori
campo visivo tagliato sulle due porte di altrettanti cessi-alcova – ispessito
da cromatismi notturni e da un acido sottofondo musicale industrial – a rendere l’idea di un’innocenza congiuntamente
perduta. Ma il grosso del materiale filmico si veicola attraverso la lineare
esposizione di contenuti, come detto. Il filo della trama rilega l’alternanza
di passato (con il riepilogo della serie di fatti a monte del
fenomeno-facebook) e presente narrativo (focalizzato sul contenzioso
stragiudiziale sorto in merito alla proprietà intellettuale del sito). I tempi
dei momenti ricostruttivi sono sintetici, laddove quelli delle fasi analitiche
sono dilatati: le frequenze nel passaggio tra i due registri scandiscono i
ritmi del racconto e, quando si alzano di intensità (ad esempio per rievocare la
cena con Sean Parker), marcano l’erompere di svolte ad alta temperatura
simbolica. Si salta furiosamente tra “prima” e “ora” quando l’inciampo rende
impellente un interrogativo chiave: rovinare amicizie in carne e ossa è davvero
servito a creare un insuperabile mezzo (e luogo) di autorappresentazione, ha
munito il fruitore del filtro capace di trattenere difetti e di esibire pregi al
ludibrio del pubblico globale? L’immagine di Zuckerberg intento a martellare di
ossessivi refresh il profilo della sua ex, ovvero a saggiare ansiosamente in
prima persona l’efficacia dello strumento, è già un’implicita risposta alla
domanda. Per un cineasta la più tranquillizzante, a onor del vero: se la
strategia di contraffazione del reale non si può mai pienamente gestire “dal
basso”, i professionisti della mitopoiesi non hanno troppo da temere.
Molto
convincente Jesse Eisenberg (Mark Zuckerberg) nell’impersonare caratteri
inflazionati quali il mix di genialità e autismo; forse ancora un po’ acerbo
Andrew Garfield (Eduardo) comunque alle prese con la parte più difficile e
umana del copione; a dir poco sorprendente Justin Timberlake (Sean Parker, il
redivivo fondatore di Napster) come inarrivabile prototipo di sopraffino
paraculo.
Vai
a vedere: Gli Spietati, Badtaste, Alessio Guzzano, Matteo Bittanti
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31 dicembre 2010
La domanda di San Silvestro
Perduta
la sua prima battaglia parlamentare sulla sfiducia all’esecutivo, la fronda
finiana sta arrangiando in chiave diminutiva certe tesi precostituite. Sta cioè
riconvertendo ad uso autoconsolatorio le stesse ragioni di dissenso che, nelle
intenzioni degli ideologi al seguito del Presidente della Camera, sarebbero
dovute servire ad aprire una faglia insanabile nella maggioranza di
centrodestra a propulsione berlusconiana. Essenzialmente si tratta di una
riproposizione pleomorfa del medesimo, piccato sotto-testo che anima i malumori
dei “futuristi” sin dalle loro scaturigini. La direttrice narrativa, tracciata contro
l’immobilismo di un premier che “regna senza governare”, dopo la mala parata
del 14 Dicembre individua tre assi tematici di diversa plausibilità – dove
quest’ultima, per tirannia del testo sul con-testo, si mostra inversamente
proporzionale all’occasionalità di ciascuna variazione sul tema.
Il
primo spunto suggerisce che il Governo, con l’esile maggioranza che si ritrova
adesso, comunque sia andata non potrà che sopravvivere a spese del suo già
modesto slancio riformatore. La volpe e l’uva: considerando che lo scopo
dell’assalto frontale all’esecutivo era la destrutturazione degli equilibri
parlamentari, la magra consolazione dello stentato predominio altrui prende il
sapore del malinconico ripiego dialettico. In secondo luogo viene lo sdegno per
il trasformismo: possibile che la maggioranza strablindata (?) uscita dalle
urne nel 2008 abbia dovuto prezzolare rinforzi tra esponenti dell’opposizione?
Vigente il premierato materiale che contraddistingue la cosiddetta “Seconda
Repubblica”, in effetti l’assenza del vincolo di mandato prevista dalla
Costituzione (art. 67) si stempera in una consolidata prassi di segno opposto. Argomento
che sarebbe dovuto valere innanzitutto per i finiani, però.
Riesce
più interessante e fondata l’obiezione circa la forma-partito ormai stabilmente
assunta dal Pdl, cioè l’autentico motore delle divergenze in seno al centrodestra.
Il popolo del Cav. si conferma una riedizione di Forza Italia, con dialogo
interno azzerato e strutture territoriali ridotte a ectoplasmi di comitati
politici. Fermo restando che, alla
vigilia della confluenza pidiellina, solo per gli anacoreti di lungo corso
era lecito nutrire aspettative di altro tenore, il “testo” di cui sopra si rifà
allora a una critica del leaderismo plebiscitario perfettamente legittima –
purché mossa con un minimo di coerenza. Volere la democrazia interna ma
avercela col “bizantinismo” decisionale; sognare un partito in vorticoso
fermento periferico ma tenere in gran dispetto i “costi della politica”; sapere
già che reperire risorse economiche liberali, vigente l'attuale disciplina del
finanziamento ai partiti, non significa inaugurare la “contendibilità” bensì
gettarsi nel pozzo di san Patrizio della giustizia a orologeria – ma riempirsi comunque
la bocca di legalismo etico: sono tutte spie di un bagaglio polemico fatto di
poche idee molto confuse. Il tatarellismo e i suoi apostoli – quella che è la
koinè eziologica del pretoriano di Fli – escono malconci dal varo del partito unico.
Il Pdl non è e non potrà mai essere una grande An. Tuttavia tale presa d’atto
non giustifica l’aggrapparsi a opinioni sommarie, disordinate e
contraddittorie.
Su
un piano più elevato, rifiutare l’idea per cui il consenso a un “capo carismatico” coincida ipso facto con
l’adesione sostanziale a una piattaforma politica significa ridare peso ai
contenuti, ovvero affermare la preminenza del messaggio sul mezzo. Cioè dire
che i principi valgono più dei loro passeggeri e spesso smemorati corifei, che le
parole non potranno mai esaurire la molteplicità fenomenica, che il pensabile
non è già stato pensato del tutto. Bello, ma – lo dico senza ironia alcuna – un
tantino fuori dal mondo contemporaneo, nel quale imperversano gli uomini della
provvidenza (e non potrebbe essere altrimenti, vista l’eterogeneità e la
vastità dei corpi elettorali). Di più, com’è possibile gettare le basi della
rinascita programmatica destrorsa su un sottofondo progressista? La questione
antropologica in salsa finiana è appaltata alla componente ex-radicale ed
ex-repubblicana di Fli. Due cucine ideologiche unite da un ricettario ben noto,
ascrivibile all’abolizione del carattere metaforico dei linguaggi, sulla scorta
della quale il possesso di sé diviene “autoproprietà” (fine vita), l’individuo “persona” (aborto), il matrimonio “coppia”
(famiglia) e così via, verso un mondo completamente mondato dai titoli e dai
diritti soggettivi. Una destra consapevole della propria ragion d’essere
dovrebbe sostenere visioni opposte, appunto in accordo con il sommario filosofico
indegnamente riassunto poc’anzi.
Perciò
la domanda di fine anno che rivolgo ai minarchici e ai conservatori “old-right”,
allergici, come me, alla boria di chi pensava che fare le serpi in seno fosse
il passatempo di un paio d’anni e non la vocazione di tutta una vita, è la
seguente: come si fa a coniugare lo spirito riformatore con la massimizzazione
del consenso elettorale, sapendo che quest’ultimo si lega al mantenimento di
sovrabbondanti fette di status quo centralista, statalista e assistenzialista?
Chi risponde senza profetizzare disastri imminenti (bella forza!) vince una
cena a prezzi popolari.
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14 aprile 2010
Due narrazioni politiche a confronto
I
vellutati esercizi di wishful thinking
che taluni notisti, zelanti ripetitori dei loro sottogruppi politici di
riferimento o – meno prosaicamente – di un ego assai restio alla contrizione,
riescono puntualmente a compitare all’indomani dei “momenti topici” del caso
(elezioni, referendum, impulsi legislativi a vario titolo degni di rilievo) non
possono non rimarcare la preminenza della dialettica in un “mondo narrativo”
altrove autoproclamatosi determinista a oltranza.
Prendi
le ultime Regionali, per esempio. Il bilancio che ne trae la pubblicistica in
senso lato finiana è, riassumendo, più o meno il seguente: Berlusconi è in
declino, una Lega clerisocialista va progressivamente incorporandosi
l’elettorato settentrionale mentre – anzi: poiché – il Pdl si limita a risultare
un comitato elettorale verticistico, succube di linee programmatiche dettate al
suo esterno e incapace di far concretamente valere la sua larga maggioranza
parlamentare. Il tutto condito dall’immancabile strutturalismo di maniera, in
forza del quale i temi etici non contano mai nulla e si vota sempre col
portafoglio.
Senza
fare troppo mistero di un certo straniamento, mi permetto di individuare
qualche toppa malmessa, qualche incrinatura logica nell’impianto argomentativo appena
schematizzato. Anzitutto è opportuno tenere presente che l’idea di un
persistente leaderismo in seno al partito di maggioranza relativa e quella di
un’avviata parabola discendente del premier si negano l’una con l’altra, almeno
nell’immediato. Considerato che l’astensionismo è stato trasversale a
sufficienza da non colpire a senso unico, per di più nel pieno di una
dirompente crisi economica e in concomitanza con un’ottima occasione per
scaricarne le tossine contro la classe politica (un’elezione di medio termine),
probabilmente va scartata la seconda ipotesi. E quindi va recuperata la
consapevolezza che il modello di partito-carisma, nel quale dottrina e profeta
si tengono in uno, ovvero mezzo e messaggio coincidono, tiene abbastanza da far
sì che il consenso per un “uomo solo al comando” definisca in sé l’adesione
sostanziale a un certo schieramento politico. Piaccia o meno (e a me piace molto
poco, detto per inciso), questo personalismo provvidenzialista è la vera cifra
della politica contemporanea, anche ben al di fuori dei confini italiani: si
pensi a fenomeni della retorica “nuovista”, deliberatamente avara di contenuti
progettuali precisi, come Barack Obama e David Cameron. Casomai è la peculiare
combinazione della tendenza generale così enucleata con l’annosa propensione
del ceto imprenditoriale e intellettuale italiano, nelle sue molteplici forme
di collateralità al potere pubblico del momento, a sfruttarla come alibi per
giustificare la mancata assunzione di responsabilità riguardo agli esiti dell’azione
di governo, a fornire interessanti spunti di riflessione.
Una
chiave per comprendere il progressivo radicamento del leghismo si ottiene
proprio a partire dal sussistere del gattopardismo di cui sopra. Si è detto e scritto
di un Carroccio mercantilista e filoclericale, con l’aggravante di aver
opportunisticamente rinnegato passate fidelizzazioni liberiste e neopagane; si
è argomentato circa il ricatto padano cui l’intera maggioranza dovrebbe
sottostare, con l’unica via d’uscita di differenziarsi agli occhi del “Nord
produttivo” sposando la linea liberal
dettata dal Presidente della Camera. Ho l’impressione che si tratti di letture
parziali, incapaci di cogliere un dato politico-culturale d’insieme. A parte il
fatto che non si capisce come mai, se ad avere peso sono solo i redditi e le
misure politiche annunciate per difenderli, il voto “verde” sia così
territorialmente segmentato, a non convincere è proprio l’idea che basti alzare
una certa bandiera ideologica per apparire credibili quali suoi effettivi
realizzatori politici. Una forza partitica in grado di raccogliere seguito
interclassista e interconfessionale – giacché difficilmente l’incontro di
dottrina sociale cattolica, sciovinismo agroalimentare, lotta all’immigrazione
clandestina e stretta securitaria può definirsi altrimenti – oltre ad azzeccare
un tema unificante, deve proporre personale attendibile a priori. La Lega, per
arrivare al punto centrale della questione, non solo ha saputo porsi come il
partito dell’equità orizzontale, ma ha anche interrotto la consuetudine di
candidare utili idioti, mandatari di un notabilato sempre attento a mantenersi cautamente
defilato (una specialità che in ambito pidiellino trova campioni indiscussi).
Lo strapaese settentrionale, più che temere la mondializzazione o piangere la
perdita di fantomatici “paradisi perduti”, non ne può più di immigrati che
approfittano senza ritegno di un welfare al quale non hanno contribuito nemmeno
in minima parte, di dover rispettare meticolosissimi vincoli burocratici,
edilizi, igienico-sanitari, per poi subire la concorrenza di spregiudicati
esercenti extracomunitari da un lato e di prodotti di ignota origine
dall’altro, né di vedersi iscrivere a ruolo per aver pagato l’Ici con un’ora di
ritardo quando in altre parti del Paese l’evasione è dilagante e
sistematicamente impunita. Se a questa situazione si somma la comoda ignavia
degli ambienti intellettuali e/o altolocati, sempre pronti a prodursi in
leziose e stizzite ostentazioni di pensiero indipendente senza mai mettersi
politicamente in gioco in prima persona, ben si capisce l’esasperazione di
sempre più ampi strati popolari. Che fanno di necessità virtù e vanno a
sbattere la testa laddove sono anche “solo” l’idraulico o l’infermiere a voler
combattere ingiustizie, ma perlomeno in modo coeso e con la garanzia di farsi
carico di eventuali insuccessi.
Al
Pdl occorre senz’altro sciogliere il nodo dell’identità politica, per tornare
ad abbinare alla “stabilità” di marca leghista l’imprescindibile contraltare
della “crescita”. Ma spingere nella direzione di una differenziazione
purchessia, per giunta di segno ideologico contrario alle esigenze di equità
manifestate da un elettorato sempre più vasto e consolidato, significherebbe
solamente fare il gioco del pervicace tatticismo caro agli eredi dello
statalismo nero (non a caso svelti a intuire come la declinazione più attuale
del dirigismo, dopo l’era dell’imporre e quella del vietare, consista nel
modulare attentamente il permettere).
Nei prossimi anni sarà già tanto se si riuscirà ad affiancare all’attuazione
del “federalismo fiscale” bossiano una riformicchia tributaria improntata alla
semplificazione, cioè al disboscamento dell’intrico di deduzioni, detrazioni,
esenzioni, crediti, incentivi e disincentivi all’oggi in vigore.
Il
compito di far capire che il “pari trattamento” davanti alle regole si
conquista anche e soprattutto deflazionando la massa normativa spetterebbe a
chi ha già ricevuto adeguata “evangelizzazione” in materia. Peccato si tratti
quasi sempre di personaggi usi a lamentare il deficit di riformismo di una
realtà socio-culturale spesso e volentieri ritenuta irriformabile per sue tare
morali congenite, perciò destinata a precipitare in un baratro del fato più che
a emendare autonomamente i suoi difetti costitutivi. Un partito preso sterile,
oltre che contraddittorio.
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29 marzo 2010
Principio, anarchia, catallassi
di Francesco Lorenzetti
tesi di laurea – 100 pp.
“L'opposto è amico soprattutto del suo opposto,
poiché ogni cosa desidera il suo contrario, non il simile.
Il secco desidera l'umido, il freddo il caldo, l'amaro il dolce,
l'acuto l'ottuso, il vuoto il pieno, il pieno il vuoto e così via,
secondo il medesimo rapporto.
Il contrario infatti è nutrimento per il contrario,
mentre il simile non trae vantaggio alcuno dal simile”
“Se ciò che è affine è differente in qualcosa da ciò che è simile,
a quanto pare [...] potremmo dire dell'amicizia ciò che essa è;
se invece simile e affine sono identici,
non sarà facile respingere il precedente ragionamento
in base al quale il simile è inutile al simile in virtù della somiglianza:
ma è assurdo ammettere che l'inutile sia amico”
Platone, Liside
Quando ci conoscemmo, Francesco sposava convinzioni sostanzialmente in linea coi dettami del liberalismo classico, mentre il sottoscritto era giusnaturalista professo. Riunioni di partito, bisbocce tra amici, eventi mondani di vario ordine e grado: ogni occasione si prestava all’innesco di garbati – e, per i malcapitati gregari, orchiclastici – dibattiti sulla filosofia prima. I cascami delle nostre serrate discussioni, impertinenti versioni “senza sapiente” del dialogo platonico, si concentravano tutti nel retrogusto acre dell’inconcludenza, nella frustrante consapevolezza di scoprirsi vieppiù prigionieri di itinerari cognitivi circolari.
Una reciproca insoddisfazione estremamente feconda, però, se questi suoi precipitati – grazie alle opportunità offerte dal percorso formativo di Francesco, neodottore in Giurisprudenza con la bella tesi di laurea in Filosofia del Diritto che mi accingo a commentare – hanno favorito per entrambi il radicarsi in profondità di idee e concetti prima afferrati solo superficialmente.
Seguendo le orme del grande vecchio della giusfilosofia patavina, lo stesso professor Francesco Cavalla il cui pièce de résistance si provava a recensire qui, occorre allora recuperare gli albori del pensiero speculativo per interrogarsi sul Principio e salvarsi la mente dalla fallacia del discorso ordinato applicato alla controversia giuridica. La protofilosofia dei presocratici, che i libri di testo del Liceo passavano velocemente in rassegna come un campionario di misteriosofie fisicaliste, si addice al compito poiché – fatta la tara al doveroso apporto interpretativo del lettore contemporaneo a quei frammenti così antichi e oscuri – ben rappresenta l’insieme di strumenti teoretici affermatisi prima che la conoscenza fosse assalita dalla brama di possedere, sezionare, controllare il mondo immanente. Su tutti una corretta intelligenza dell’arché, ossia dell’ente assoluto, ciò di cui tutto si predica ma che non si predica di nulla – un cerchio infinito il cui centro è ovunque ma la cui circonferenza non è in nessun luogo, per dirla con Andrew Davidson. Nulla a che vedere con la certezza formale, cioè con l’esito puntuale dell’adozione di un sistema in grado di porre univocamente un oggetto da indagare tramite un dato metodo. Anzi, proprio l’imporsi di quest’altro paradigma gnoseologico – insostituibile complemento delle dottrine atomiste, nichiliste e neoplatoniche – ha condotto all’eclissi moderna e postmoderna della ricerca del vero e del giusto in ambito giuridico, a tutto vantaggio di visioni tecnocratiche e strutturaliste, ancillari nei confronti del potere e dei suoi arbitri. Invece la nozione di Verità che deve ritrovare spazio, soprattutto all’interno di una riflessione filosofica realmente intenzionata a emanciparsi dalle contrapposte erranze di positivismo e naturalismo, riguarda il “collante trascendentale” dell’universo, “ciò che tiene in una tutte le cose pur mantenendo e custodendo ogni differenza” garantendoci la stessa possibilità di “sapere” qualcosa. Nelle parole di Cavalla si fa riferimento alla “potenza [...] che espone alla vista dell’uomo un’affiorante molteplicità di enti diversi, eppure tutti collegabili; sicché da ciò è consentita all’uomo, con il giudizio e con l’azione, ogni sorta di particolare e mai conclusivo collegamento. Perciò, perché originariamente anticipante e inesausta in un qualsiasi ambito di fenomeni, la verità esorbita da ogni possibile raffigurazione oggettiva”. L’essere, considerato alla luce di premesse del genere, non può consistere in una sostanza indifferenziata che la ragione umana decodifica mediante l’implementazione di assunti meramente convenzionali, giacché in tal caso non sussisterebbero i noti limiti all’analisi formalizzata (come evidenziati dal lavoro göedeliano sull’indecidibilità, ad esempio). Né, all’opposto, è lecito ritenere il mondo alla stregua di un magma caotico, rappresentabile ordinatamente solo sotto l’imperio della pura volizione, altrimenti nessuno sarebbe capace di farsi capire dai propri interlocutori, esprimendosi in assenza di stipulazioni esplicite.
L’estensione dei caratteri propri e necessari del linguaggio alla globalità delle relazioni umane è, in effetti, la miglior chiave di lettura per delineare la traiettoria argomentativa della tesi, dall’inquadramento teorico sino ai conseguenti sviluppi metodologici. E se il rapporto tra comunicazione e significato si snoda tra le regole fisse di una grammatica e le regole informali del gergo e dell’idioletto, dando luogo a codici da apprendere in modo costante, aperto e mai interamente sistematizzabile, un analogo modello dialettico fondato sul “libero scambio” para-linguistico investe la totalità delle istituzioni sociali – spontanea e “irriflessa” com’è la loro eziologia. Il canone prasseologico così descritto, base concettuale della Scuola Austriaca di Economia, in letteratura prende il nome di catallassi, vale a dire “una teoria dei processi sociali dinamici. Si tratta di un moderno neologismo forgiato partendo dal verbo greco katallàssein [...] che, significativamente, racchiudeva in sé la duplice accezione di «scambiare» o «barattare», così come quella di «ammettere nella comunità» e di «riconciliarsi», «diventare, da nemici, amici». Per analogia, dalla medesima voce vien fatto discendere [tale] ulteriore neologismo [...], allo scopo di indicare quell’ordinamento del mercato che si forma spontaneamente; ovvero, un equilibrio socio-economico instauratosi secondo un processo inintenzionale di scoperta, nel quale i prezzi fungono da sistema di trasmissione delle informazioni disperse” (Zanotto).
Questo originale connubio di filosofia arcaica e di economia “austriaca” permette di ripensare radicalmente il novero delle modalità di statuizione del diritto. Non mancano esempi storicamente documentati di libera interazione giuridica, a partire da quello più frequentato dalla pubblicistica paleolibertaria, la lex mercatoria medievale. Antesignana del diritto commerciale internazionale pur senza aver ricevuto alcun imprimatur dai poteri pubblici dell’epoca, essa – in un’Europa che già portava in grembo l’abbozzo della moderna globalizzazione – costituì un eccellente volano per le transazioni mercantili. Un effetto che questo corpo legislativo riusciva a sortire con regolarità, facendo leva sulla minaccia di emarginazione dal circuito economico per chiunque disconoscesse deliberatamente l’autorità dei tribunali informali istituiti per dirimere le vertenze tra mercanti. In quest’ottica l’infrazione alla norma, anche delittuosa, non è debellata una volta per tutte, bensì messa costantemente in mora da un sistema “neutrale rispetto ai fini” ed estremamente “efficiente [nel] far sì che le persone si relazionino condividendo informazioni”. Esistono peraltro momenti meno datati del precedente a riprova della tesi riassunta fin qui: il ripristino dell’arbitrato volontario su iniziativa dell’avvocatura e della Camera di Commercio dello Stato di New York, nel 1920, oppure – nel delicatissimo campo del diritto penale – l’esperienza condotta a partire dagli anni ’70 dall’American Arbitration Association nella presa in carico di casi criminali minori. Altrimenti, fuori dall’anglosfera, va menzionato il recente D. Lgs. 28/10, positiva eccezione allo stato confusionale del panorama politico-legislativo nostrano.
Appunto nella direzione di una ricerca sulle possibili concretizzazioni operative di una teoria giuridica volta a “far diventare amici i nemici”, verosimilmente, si indirizzerà il testimone lasciato in eredità da Francesco a chi vorrà raccoglierlo. A lui, ora, il compito di far fruttare nella professione il grande impegno profuso in questo lavoro, anche a dispetto dello scetticismo dei tanti che ne hanno messo in dubbio il giovamento pratico post-laurea – mentre invece nel nucleo tematico sviscerato dall’amico Lorenzetti pulsa il cuore stesso della significanza del mestiere di giurista. A entrambi, nelle prossime occasioni utili, il sottile piacere di suscitare perplessità con parole astruse e scenari utopici durante le libere uscite tra amici: dopotutto la Verità si riduce a banale conformismo, se evocarla non desta almeno un po’ di placido scandalo.
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18 dicembre 2009
La Bibbia di Satana/Diritto, natura e ragione
di Anton Szandor LaVey Arcana – collana “Controculture”, 253 pp., € 14,00
e di Murray Newton Rothbard Rubbettino, 172 pp., € 9,00
a Laura
Aprendo la Bibbia – quella tradizionale, per il momento – leggiamo che il Maligno si qualifica come tale nell’instillare a Eva la superbia di poter attingere su base squisitamente volontaristica la perfetta scienza delle cose. Il passo (Gn 3, 4-5) è inequivocabile: “Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che, quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male»”. Laddove il riferimento mangereccio, com’è risaputo, va al frutto dell’albero della Conoscenza. In pochissime battute emerge così il centro tematico dell’interrogativo che lacera l’umanità dacché si tiene registro di una qualche forma di dibattito filosofico: il pensiero strutturato risponde a un principio sovraindividuale o è una facoltà soggettiva? E a seguire: con le sue sole forze psicofisiche, l’uomo è in grado di autogestirsi l’immanenza nella direzione di un progressivo miglioramento individuale e collettivo? “Se non c’è Dio, io sono Dio” diceva Dostoevskij. Lo stesso asserto, ancorché privo dello struggimento teologico-morale affettato dal romanziere russo nel motteggiarlo, è raccolto e sviluppato nel cult-book del papa satanico Lavey. L’occultista naturalizzato californiano, deceduto nel 1997 non prima di aver investito del titolo di reverendo la nota shockstar Marilyn Manson, con questo suo libro del 1969 volle dare alle stampe uno zibaldone pop-filosofico in orbita su un’ellissi avente Nietzsche e Mill come fuochi, entro il cui perimetro Satana funge da archetipo intellettuale di un ben preciso pattern etico e gnoseologico. Esso si può sbozzare nel modo seguente: dotato del giusto viatico conoscitivo (per esempio attraverso idonei percorsi iniziatici), l’individuo si salva da sé. Appunto il paradigma gnosticheggiante assunto dalla Genesi nientemeno che a fomite del peccato originale e che, da solo, ben sintetizza l’essenza delle concezioni filosofiche atomiste e/o a vario titolo nichiliste. Il manifesto satanista include tutti i punti deboli della tradizione di pensiero cui si rifà più o meno apertamente, senza però mantenerne intatti gli elevati standard speculativi. Difetto, quest’ultimo, se vogliamo comprensibile, dato un taglio mediale dell’opera senz’altro divulgativo – nonostante l’ultimo terzo del volume si diffonda in un tonitruante quanto pittoresco esoterismo (quello delle Chiavi di Enoch). Ma gli aspetti problematici della trattazione, ripeto, sono soprattutto concettuali e ricalcano fedelmente il repertorio di contraddizioni in termini tipico dei relativismi, siano essi somministrati nella variante “forte”, in quella “debole” o in un eterogeneo cocktail delle due come nella fattispecie. Per averne contezza basta ritagliare qualche brano dal testo e ragionare sia sul senso dei singoli estratti che sul livello di coerenza logica ravvisabile dal loro confronto: “Tra queste pagine troverete la verità…e l’immaginazione. L’una è necessaria all’altra e viceversa; ma ognuna deve essere considerata per quello che è” (p. 23). E già qui mancherebbero le definizioni da stipulare per “verità” e “immaginazione” nonché l’illustrazione del rapporto di interdipendenza tra le due idee, ma almeno sembra venir fornita una premessa teorica, un’ipotesi di lavoro. Tuttavia, poco più avanti, si legge: “Tutto ciò che è dichiarato ‘verità’ si dimostra in realtà una vuota finzione; lasciate che sia gettata senza troppe cerimonie nello spazio oscuro tra gli dei morti, gli imperi morti, le filosofie morte e altri inutili detriti!” (p. 35). Gettare la verità nel linguaggio significa per forza di cose tradirla, d’accordo, ma la comparazione dei due fraseggi succitati non può non evidenziare una stridente e grossolana discrepanza teoretica. Per di più la seconda proposizione, se presa alla lettera, nega bilateralmente se stessa, come se un cretese proclamasse che tutti i cretesi mentono. A proposito di varianti sul tema del paradosso di Epimenide: “Cambiando i contesti, nessun ideale umano può rimanere certo!” (p. 35). E ancora: “La verità, da sola, non ha mai reso libero nessuno. Soltanto il DUBBIO può provocare l’emancipazione mentale. Senza il meraviglioso elemento del dubbio, la porta attraverso cui passa la verità sarebbe chiusa a doppia mandata” (p. 43). Vigente la prima affermazione, il satanismo si iscriverebbe d’ufficio tra le vittime illustri dell’impermanenza degli ideali così enunciata. La cultura del dubbio, poi, per ambire alla consistenza dottrinale, deve fondarsi su presupposti che non coincidano col dubbio medesimo – e quindi riconoscere schiettamente che non di tutto è lecito dubitare – evitando di caricare esigenze metafisiche sulle gracili spalle di un semplice metodo . Altrimenti, di nuovo, ci si trova di fronte al controsenso per cui il significato di un sommario ideologico contiene in sé gli elementi della propria negazione. Se soltanto il dubbio libera, in altre parole, tale asserzione va protetta dall’utilizzo dell’incertezza contro di essa. Il versante nicciano del’esposizione non rende giustizia al suo padre nobile: il filosofo di Röcken non cadde mai in aporie tanto banali, perché non rifiutava assolutamente la verità come orizzonte noumenico di riferimento. Egli si “limitò” ad analizzarne filologicamente la radicale alterità rispetto alla ragione umana – col guaio di avanzare a sua volta una tesi veritativa, ma questa è un’altra storia. Nemmeno il lato milliano del saggio se la passa benissimo. Se la morale sessuale satanica “incoraggia qualsiasi forma di espressione sessuale che si possa desiderare, con il limite di non nuocere ad alcuno” (p. 78), i riti propiziatori illustrati più oltre da Lavey si basano sul controllo di tre forze psichiche, una delle quali “è quella della distruzione. Questa è una cerimonia usata per rabbia, irritazione, sdegno, disprezzo o per semplice odio. È conosciuta come malocchio, maledizione o agente distruttivo” (p. 130). E in proposito va tenuta presente l’ulteriore raccomandazione: “Sii sicuro che NULLA ti importi se la vittima predestinata viva o muoia; prima di lanciare la tua maledizione e, quando causerà la sua distruzione, divertiti anziché provare rimorso” (p. 132). Vale la pena di sottolineare che Lavey non fu certo un mago da strapazzo, ma più che altro un convinto fautore della tortura psicologica (dei nemici), dell’autostima (verso se stessi, chiaramente) e dell’empatia (con gli amici). Cionondimeno la discrasia di precetto rimane: di base il prossimo va rispettato o circuito? A far problema è il liberalismo di maniera concentrato nella frasetta “posso fare ciò che voglio finché non danneggio gli altri”. Sembra il tripudio della chiarezza adamantina, mentre invece l’umanità si arrovella da sempre su cosa debba rientrare nella categoria del nocumento. Stabilire dove porre il confine tra danno morale e materiale rinvia alla più classica regressio ad infinitum, per eludere la quale la modernità ha creduto di riparare agilmente nel diritto negativo. Uno strumento che però ha il difetto di trasformare la libertà in un fine politico, sicché tra eccezioni, esenzioni, controllori da controllare e incentivi da offrire selettivamente per bilanciare le asimmetrie informative il liberale diventa liberalsocialista (Mill docet, non a caso). Nel frattempo, per giunta, la domanda relativa alla compatibilità tra deferenza verso il prossimo e fattiva induzione al suicidio del medesimo, in caso di “offesa” da parte sua, rimane senza risposta.
La piccola miniera di paralogismi e questioni irrisolte scavata da Lavey col suo libro, in ogni caso, contribuisce ad accreditare il punto di vista secondo cui le filosofie individualiste, liberali o libertarie debbano rifarsi a un ethos consequenzialista (ovvero pragmatico, utilitarista, edonista). Di avviso molto diverso fu sicuramente Murray Rothbard, campione del libertarismo statunitense. Agnostico professo, l’anarco-capitalista newyorkese fu anche un convinto sostenitore della continuità teorica tra la Scolastica medievale e le moderne libertà negative. La “linea madre” giusnaturalista, nella visione rothbardiana, traccia l’asse di un percorso comune alle innumerevoli sfaccettature del liberalismo. Dove per alcuni palpitano le ragioni della contingenza e dell’opportunità, per Rothbard regna l’assoluto morale. Quindi l’eudemonia aristotelica –la felicità che consegue alla rettitudine, semplificando – anziché l’utilità. Logico allora che da questa antologia di scritti giovanili emerga un piccato dissenso nei confronti delle scuole di pensiero avverse a quella “continuista”. Rothbard ne ha per Hayek, per il suo maestro Von Mises, per Cutten, per Robbins, ma in particolar modo per Leo Strauss e per Karl Polanyi. I suoi bersagli elettivi sono essenzialmente due: l’atavismo consuetudinario di stampo hayekiano e la frattura straussiana tra lex tomista e ius lockeano. Per un verso prosegue la diatriba tra old-whiggism e right-libertarianism, con gli usi e costumi contrapposti ai diritti universali, mentre per l’altro tornano a scontrarsi la lettura “cattolica” e quella “protestante” della nascita del liberalismo. Come spesso gli è capitato, anche qui Rothbard dà prova di frizzanti doti retoriche, eppure le sue controdeduzioni al vetriolo non fanno che girare attorno al cuore pulsante delle tematiche affrontate senza nemmeno scalfirne il quid. Allarmato dai rischi della common law, l’autore ritiene di sottrarsi al mare in tempesta della catallassi sotto l’ombrello dell’assioma di non aggressione. Ma si è già accennato a quanta ineludibile base dialettica sostenga in radice la nozione di danno e, nel contempo, abbiamo altresì spiegato che la “assenza di impedimenti” è formula vuota di contenuto morale (per approfondire il tema vedi qui). Nella sua pregevole introduzione Roberta Modugno non manca di difendere la lezione hayekiana dalla caricatura fattane da Rothbard: “In Hayek quel che è fondamentale è il concetto di evoluzione culturale […] che riguarda la genesi e lo sviluppo di istituzioni, quali, tra le altre, la religione, il diritto, il mercato e, in generale, i sistemi autogenerantisi e autoregolantisi che vanno a formare la complessità della società” (p. 26). E poi: “deprecabile è stato, per Hayek, l’affermarsi del razionalismo di matrice cartesiana. Questa tradizione, infatti, ha ignorato la distinzione tra taxis e cosmos, cioè a dire tra sistemi e associazioni la cui struttura formale è caratterizzata da un ordine costruito e quei sistemi che, invece, sono cresciuti e si sono affermati attraverso un processo di evoluzione e si configurano perciò come ordini spontanei” (pp. 31-32). Saranno poi sconclusionati e teoricamente infondati gli scritti straussiani, ma parimenti latita la spiegazione del perché il moderno passaggio da legge a diritto costituirebbe un “affinamento” e non un drastico cambiamento di prospettiva nell’intendere il rapporto tra individuo e autorità. Inoltre, se il divorzio tra fatti e valori può – giustamente – lasciare spazio a svariate ubbie epistemologiche, perché allora non approfondire il legame elettivo tra le proposizioni prescrittive e le valutazioni che si possono dare circa gli stessi “fatti” di cui sopra? Quello che Rothbard vede come fumo negli occhi, in conclusione, è l’inabrogabilità dei beni pubblici derivante dalla concreta “messa in opera” del diritto come scienza del giusto e dell’ingiusto. I fondamenti della giurisprudenza penale, in quest’ottica, si formalizzano come postulati fluidi invece che come assiomi rigidi, a dispetto di ogni cognitivismo etico, e non si possono dedurre univocamente col solo ausilio di una ragione universale. L’errore rothbardiano sta a mio avviso nel considerare sinonimi, chissà se più per equivoco ideologico o per riflesso mentale, gli attributi “pubblico” e “statale”: ma è proprio una volta rappacificato con la molteplice declinabilità del potere costituito che il libertarismo guadagna forse qualche speranza di promuoversi da libro dei sogni a plausibile agenda politica.
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25 settembre 2009
Io sono mio?
Qualche settimana fa Alberto Mingardi ha postato un articolo nel quale, in buona sostanza, si sosteneva la legalizzazione del commercio d’organi anche – è il tratto saliente della riflessione mingardiana – qualora prelevati da donatori volontari viventi. A conti fatti mi trovo d’accordo con molti dei punti di caduta individuati nel pezzo ma, come spesso mi capita confrontandomi con l’argomentare liberale “classico”, poco o niente con le premesse logiche del ragionamento svolto [continua su Chicago Blog]
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18 giugno 2009
Tre pillole politiche
1. A margine dell’incresciosa vicenda Noemi-Papi è salito nuovamente alla ribalta il tema della morale politica, purtroppo ancora una volta secondo il frusto paradigma del bipolarismo etico invalso riguardo a qualunque “materia del contendere” di minima rilevanza pubblica. Su un fronte ha voce il moderno fariseismo per il quale i precetti comportamentali vanno sempre serviti in carta patinata, ovvero promossi da uomini coerenti con essi, per ambire a guadagnarsi l’agognata credibilità. Tralasciando la fallacia logica annessa al ritenere la coerenza un valore in sé, vale la pena di ricordare che il piano ideale e il piano concreto, benché convergenti sotto il profilo prasseologico, sono distinti sotto quello concettuale. Linea di fatto e linea di principio si giustappongono dialetticamente senza mai dissolversi l’una nell’altra, ovvero: se un ladro mi dice che rubare è sbagliato, al ladro devo dare ragione in linea di principio salvo domandargli conto del suo illecito in linea di fatto. Nel senso che appunto il concetto di illecito – o di peccato, per chi si rifà a una morale confessionale – va inteso al servizio del discernimento, non già della dannazione, per essere interpretato correttamente. Dal versante opposto si propende per una sorta di utilitarismo crociano applicato al culto della personalità che contraddistingue sempre più il rapporto tra i corpi elettorali e gli “uomini soli al comando” di turno. In sostanza si dice che il politico onesto è il politico capace: faccia quello che gli pare dalla cintola in giù, purché sappia trarmi in salvo dalla crisi, dal digital divide, dal logorio della vita moderna – purché sappia cioè far funzionare il marchingegno statale di modo da massimizzare l’utilità collettiva. Si tratta di due diverse varianti dello stesso relativismo per cui il bene e il male non esistono come essenze autonome a priori, ma emergono dalla concomitanza di fattori per lo più contingenti/strumentali/formali. Invece sarebbe il caso di tenere presente che vigilare sui vizi privati dei potenti non serve tanto a sconfessarne le virtù pubbliche, quanto a impedire che le posizioni di responsabilità siano ricoperte da persone a vario titolo ricattabili. Silvio Berlusconi è andato al compleanno di Noemi Letizia a favore di una serqua di telecamere, quindi nella fattispecie ha messo deliberatamente in piazza il rapporto che lo lega a questa ragazzina: se si trattasse davvero di una relazione amorosa, al premier andrebbe diagnosticato l’autolesionismo acuto. Ma se il Cav. coltivasse tresche occulte d’abitudine, in quale e quanta misura si troverebbe sotto minaccia di scandalo a mezzo stampa? E tale “minaccia” come si servirebbe del potere in mano al Presidente del Consiglio? Premendo magari per favori politici anche a scapito dell’equo trattamento della cittadinanza tutta? 2. Per spezzare l’asse Fanfani-Almirante che orienta il gradiente politico-culturale del neonato Pdl, Gianfranco Fini ha scelto di fungere da cuneo repubblicano nell’intento di incrinare il monolite statalista da cui il soggetto unitario di centrodestra par muovere i primi passi. Come un Ugo La Malfa redivivo, tanto per rimanere in similitudine. È molto interessante – e molto urgente, a giudicare da spropositi come la legge Calabrò – porgere alla Destra italiana il tema della laicità. Corrivo e insignificante, invece, è pensare di riuscire nell’opera recitando a memoria slogan imparaticci e apodittici, anziché proponendo elaborazioni nuove e originali. Sarà che quelle richiedono tempo e fatica senza poi garantire qualche titolone brutalmente sintetico sulle prime pagine dei quotidiani? Per un conservatore, la laicità è un dovere dello Stato, non un obbligo del cittadino – ciò che diviene nell’azione politica impegnata a scorrelare disponibilità di risorse e stile di vita. Bene: ma come conciliare questo assunto alla temperie dell’oggi, in cui cresce la domanda di protezione sociale in tutti i campi? Come presidiare i confini tra la libertà negativa (politica) e libertà positiva (morale) laddove aumenta la domanda di realizzare, anziché “solo” di garantire, i diritti essenziali? 3. Bipartitista convinto da sempre, i tre quesiti referendari di Domenica e Lunedì mi mettono abbastanza in crisi. Sulla terza scheda nulla quaestio, voto sì perché la candidatura multi-circoscrizione è un privilegio sibaritico. Ma la prima e la seconda offrono l’opportunità di adottare una norma condivisibile solo a certe condizioni, nessuna delle quali allegabile a una consultazione abrogativa. Ebbi un problema analogo ai referendum sulla procreazione, allorché – sebbene favorevole all’eterologa – barrai il no sulla seconda scheda nel dubbio (dirimente) circa l’anonimato del donatore esterno alla coppia. Stavolta mi fa problema l’impossibilità di sapere a priori se un eventuale assetto bipartitico futuro sarà corredato dall’indispensabile ausilio delle primarie. Anzi, visto che probabilmente il testo del porcellum rimarrà invariato tranne le parti in predicato di abolizione, ho viceversa la certezza che una (improbabile) vittoria dei sì non farebbe che accentuare la partitocrazia castale arroccatasi sul meccanismo delle liste bloccate. Per tagliare la testa al toro voterò sì sulla scheda numero uno e non ritirerò la numero due: fingerò di credere alla favola del Senato federale e lascerò che nella camera alta ci si avvii coerentemente a privilegiare il pluralismo rappresentativo.
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